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di Luca Mikolajczak

Agosto 1932

Renato Guttuso aveva ventun anni e venti lire nel portafogli, speranze tante. Stanco di disegnare carretti siciliani, aveva deciso di abbandonare la soporifera Bagheria per inseguire un fermento di cui aveva soltanto sentito parlare, vagheggiando un ideale di accogliente sovversione.

Valigia di cartone in mano, dopo la straripante esperienza romana, si trasferì nella più raccolta Perugia, invitato dal Soprintendente alle Belle Arti Achille Bertini Calosso per un apprendistato alla Galleria Nazionale.

Fuorisede come molti, si sistemò a pensione dalla famiglia Piergiovanni in via Vermiglioli 7. Bastava fare un po’ di passi in salita – che fatica le salite a Perugia, non era abituato – ed era nel cuore del centro, nel corso intitolato al maestro di Raffaello, anche lui forestiero guidato dai capricci di Artemisia.

Ottobre 1932

Dopo un’intera giornata passata a sanare le ferite delle tele, procurate dall’umidità e dall’oblio, Guttuso si intrufolò timidamente nella calca del corso, una birra al tavolino nell’attesa di un baluardo di condivisione. Trascorse la serata guardando i coetanei fare brindisi a iosa, intervallati da frequenti e ingegnose bestemmie. Gli spiegarono che nella terra dei santi lo sproloquio blasfemo è un intercalare necessario. A parte una ragazza che, visibilmente su di giri, gli chiese una sigaretta, nessuno si avvicinò a lui.

Era stato messo in guardia circa l’ostilità dei perugini, ma non aveva dato peso a quei luoghi comuni.

Sconsolato tornò nella sua stanza ammobiliata.

La mattina dopo avrebbe ripreso quel lavoro certosino per il quale non era poi così portato: restaurare meccanicamente opere per restituirle allo splendore, non lo entusiasmava. Affatto.

Come tutti i giovani, come tutti gli artisti, e come tutti i giovani artisti, guardava al futuro, alla rottura del vecchio, e più che a entrare nello spirito e nello stile di ignoti pittori defunti sembrava interessato a forgiare il proprio estro.

Poi quel silenzio, quegli sguardi circospetti, nemmeno un segno di intesa, ognuno indaffarato a fare il proprio compito. Salire la mattina le scale della Galleria era come salire al patibolo della più cupa monotonia.

Novembre 1932

Estenuato dal torpore e dalla solitudine, lo fece senza pietà. Infierì contro un’anonima Deposizione della Croce cinquecentesca. La sua unica colpa era quella di essere lì, casuale capro espiatorio di tante frustrazioni. I colori diventarono freddi, ad accentuare il dolore per il Cristo e per tutti i poveri cristi.

Non era quello il suo ambiente. A nulla volsero le esortazioni dei coniugi Fuso a rimanere. Nella loro casa di via della Sapienza, Guttuso aveva trovato un’oasi di solidarietà in un mare magnum di indifferenza. Ripagava i suoi ospiti con ritratti dai tratti ancora morbidi, ma dall’espressività già plastica, decisa, con dettagli cromatici surreali.

Bettina era il suo soggetto preferito, poi la madre di Bettina, Albina, poi vari frequentatori di casa Fuso. Brajo invece non fu mai ritratto, forse non lo ispirava, forse chissà…

Dicembre 1932

Rifece le valigie. Lo attendeva il mondo, capace di condurlo alla scoperta di una verità che non si può comunicare se non con l’arte. Ardeva la fiamma, non si poteva più contenere.

Arrivederci Perugia, città dove “tutti ti considerano un intruso”. Ci vediamo quando sarai più accogliente.

Renato Guttuso mantenne una fitta corrispondenza con i coniugi Fuso, esprimendo la propria gratitudine per la “immeritata cordialità”. Tornò a trovare i suoi amici all’inizio degli anni Quaranta, anche per partecipare ai salotti frequentati da personaggi come Giulio Carlo Argan e Cesare Zavattini.

La Deposizione della Croce di cui sopra è oggi conservata al Deposito della Galleria Nazionale.

Si ringrazia il Dott. Massimo Duranti per le informazioni gentilmente concesse, da cui è stato tratto liberamente l’articolo.

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