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DOMANDA 1.

Leggere attentamente e scegliere quale delle seguenti affermazioni NON può essere associata in maniera esplicita alla pratica educativa proposta nelle nostre scuole.

Nella pratica scolastica il bambino:

  1. Impara per non essere punito;
  2. Impara per ricevere una ricompensa;
  3. Impara per essere migliore degli altri;
  4. Impara scoprendo il suo naturale istinto di conoscere e scoprire, motivato in maniera spontanea dalle domande che la vita concreta gli pone, collaborando con gli altri e sfruttando a pieno la potenza dei meccanismi naturali di apprendimento;
  5. Impara per ottenere una posizione vantaggiosa nel mondo esterno.

DOMANDA 2.

Un grande scrittore russo viene ricordato anche per aver istituito, in una sua tenuta in campagna ereditata dalla madre, una scuola libertaria per i figli dei contadini. Chi era?

  1. Gogol
  2. Tolstoj
  3. Čechov
  4. Makarenko
  5. Dostoevskij

DOMANDA 3.

La Pedagogia degli oppressiè un’opera scritta da:

  1. Antonio Gramsci
  2. Paulo Freire
  3. Giovanni Gentile
  4. Maria Montessori
  5. Don Milani

DOMANDA 4.

Solo una delle seguenti caratteristiche NON rientra tra i tratti peculiari della Pedagogia libertaria:

  1. La centralità della motivazione nel processo di apprendimento
  2. L’importanza della motivazione «naturale»e il conseguente rifiuto di ogni sistema basato su punizioni e ricompense
  3. La ridefinizione della relazione tra insegnante e alunno realizzata sulla base del rispetto della figura dell’insegnante, sollevata dalla dimensione affettiva propria delle relazioni familiari
  4. L’attenzione alle condizioni in cui hanno luogo l’insegnamento e l’apprendimento. Ovvero le relazioni di tipo familiare che rimandano all’amore, al sostegno e all’incoraggiamento emotivo, e quelle connesse alla libertà
  5. Sia b) che d)

DOMANDA 5.

Paul Robin, Francisco Ferrer, Sebastien Faure sono esponenti:

  1. Della pedagogia democratica
  2. Del problematicismo pedagogico
  3. Della pedagogia libertaria
  4. Della pedagogia interculturale
  5. Della pedagogia clinica

***

Eccomi qui, con le mie due lauree in Scienze dell’educazione e in Consulenza Pedagogica, con i miei quattro anni di esperienza come educatore professionale nel settore minori e immigrati per una cooperativa sociale (che se consideriamo tutte le esperienze educative non lavorative fatte nel periodo rosa dell’adolescenza, possono arrivare comodamente a 14-15), a non avere la minima idea di come parlare, di come raccontare, di come mettere insieme anche solo dieci righe su di un libro che si intitola Educare per la libertà, scritto una quarantina di anni fa da Michael P. Smith, e ripubblicato dalla casa editrice Eléutera a marzo con una prefazione di Francesco Codello.

Sembra strano ma è così.

Il blocco mi è venuto mentre ripercorrevo con entusiasmo assieme all’autore le tappe di una storia che affonda le sue radici nello sviluppo del pensiero anarchico a partire dalla seconda metà dell’ottocento.

Mentre scoprivo (o riscoprivo) la possibilità di una pratica scolastica non repressiva, che ha come scopo quello di non lasciare l’individuo politicamente indifeso e impotente di fronte al mondo.

Mentre mi rendevo conto che se il potere dominante da contrastare in quegli anni (fine ‘800) per quello che riguardava l’istruzione era ben identificabile con l’autorità religiosa, oggi la chiesa resta (in termini generali e semplicistici) solo uno scudo dietro cui il nuovo “potere delle cose” (definizione mia puramente a caso) continua a sfornare sudditi fedeli alle logiche del mercato, a sostituire, attraverso pratiche meritocratiche e centrate sulla performance, la qualità con l’efficienza.

Mentre con assoluta amarezza riconoscevo come molti, moltissimi autori (da Marx a Tolstoj, da Proudhon a Godwin, e via discorrendo) erano certi che per cambiare la società era necessario cambiare le persone e che per cambiare le persone – forse sarebbe più corretto dire dare alle persone la possibilità di essere ciò che realmente sono -, fosse necessaria e fondamentale un’attenta e coerente pratica educativa. Un’educazione che, secondo loro, era in grado da un lato di liberare l’individuo dalle logiche del potere dominante, dall’altro di liberare tutte le sue potenzialità e possibilità di realizzazione.

L’educazione.

Potentissima.

Scomoda.

Deviata.

Sconosciuta.

Sconosciuta nel senso di non-riconosciuta come cardine e colonna portante della società in cui vivo.

E qui mi sono bloccato.

Non mi sembrava avesse più senso parlare del libro, raccontare che nel tempo sono state fatte esperienze e istituite scuole che hanno dimostrato come l’essere umano apprenda di più e meglio in un contesto non giudicante, affettuoso e democratico, scrivere che è stato scientificamente provato che l’autorità funziona, ma ci danneggia gravemente rubando il nostro potenziale espressivo e creativo, se (e qui rubo una frase all’immenso Raymond Carver) la stragrande maggioranza delle persone non sa di cosa parliamo quando parliamo di educazione.

Provo a spiegarmi meglio.

Avete mai provato a dire ad una persona che state studiando per diventare educatori?

Avete presente quel leggero imbarazzo che si dipinge sul suo volto, che quasi vorrebbe chiederti “che è?” e invece si limita a sorridere e ad affermare “Scienze dell’educazione, ah, certo, non pensavo che ci fosse un’università anche per questo!”

Avete presente la compassione di vostra madre, che si augurava qualcosa di meglio per la propria creatura che fare la fame a 900 euro al mese, trafitto dagli accolli e da situazioni familiari talmente complesse da non avere fine? Vi siete mai sentiti un pirata su una spiaggia deserta senza barca né equipaggio, solo davanti a tutto l’oceano della fragilità umana spesso racchiuso dentro quattro mura umide, magari di proprietà del comune?

Bene.

Invece provate a dirgli che state studiando per diventare ingegneri.

Sbam! Mamma ricopriti d’orgoglio davanti a tutto il mondo. Tuo figlio sarà un solido e irreprensibile ingegnere, avrà un grattacielo che porterà il suo nome, costruirà una casa nel bosco che sembrerà parte del bosco stesso, ponti indistruttibili, macchine volanti, il futuro, cazzo.

Un futuro migliore.

Già, peccato che poi sopra i ponti (quando non crollano) ci passano le persone, nelle case e negli appartamenti ci provano a vivere e stare bene le persone e le macchine ancora per poco probabilmente le guidano sempre persone.

L’ho vissuto sulla mia pelle.

Quello che si è venuto a creare, come ci mostrano i due psicanalisti, Miguel Benasayag e Gérard Schmit, nel libro L’epoca delle passioni tristi, citato anche da Francesco Codello nella prefazione di Educare per la libertà è una spaccatura del mondo tra chi ce l’ha fatta e chi non ce l’ha fatta.

L’ho vissuto sulla mia pelle.

Hanno dannatamente ragione.

Pensateci bene, prima ho accennato al mestiere dell’educatore, ma pensate ad un muratore o ad un falegname: che amino o meno il loro lavoro non conta, agli occhi della società la loro scelta professionale sarà comunque frutto di un insuccesso.

Un infermiere è uno che “non era in grado di fare il medico”.

Uno che ha perso la gara per arrivare in cima.

Ce la possiamo raccontare come ci pare, ma questa è la realtà.

E in questa logica da «allevamento industriale» rischiamo che tutte le belle parole legate al tema dell’educazione, della libertà, restino, appunto, soltanto belle parole.

Dai primi anni di scuola comincia la selezione “naturale”, l’apprendimento funziona solo sotto minaccia, il futuro non è più qualcosa di desiderabile, ma qualcosa di incerto da cui ci si deve difendere con le unghie e con i denti.

Mettiamo ai nostri bambini sulle spalle un peso che non potrebbero portare nemmeno se avessero cent’anni.

E infatti sbroccano.

E per fortuna sbroccano, in vari e differenti modi.

C’è chi si oppone in maniera violenta, chi si ritira in un mondo che semplicemente non esiste, chi si adatta a fare il lupo, chi l’agnello.

Continuiamo a chiedere loro tutto quello che non siamo stati in grado di essere, tutto quello che non siamo stati in grado di fare.

E la cosa più incredibile è che davanti a questo disagio, alcuni giorni fa mi è capitato di leggere un articolo dell’anno scorso di Paola Mastrocola che aveva come titolo “Mettiamoli in castigo”.

Già, pure.

Visto che non ne ho parlato quasi per niente posso solo invitarvi a leggere il libro di M. P. Smith Educare per la libertà, dove troverete anche le risposte alle domande con cui ho aperto l’articolo, e nel frattempo gridare con me che la risposta non è e non sarà mai l’autorità.

Postilla 1. A chi non vuole andare fino all’edicola e tirare fuori 16 euro per il libro: non condivido la scelta, ma ci sta. Se vi interessa comunque sapere quanto avete fatto al test e avere le risposte commentate, ve le mando in privato.

Postilla 2. Quasi dimenticavo la colonna sonora di questo articolo. Sarei dovuto andare su un banalissimo Faber (di cui è uscito un tributo curato da Sony Music in cui l’esercito dell’Indie interpreta alcuni dei suoi capolavori, alcuni pezzi meritano l’ascolto), ma vi consiglio di ascoltare I 400 Colpi (https://spoti.fi/2JNYsaT), di un gruppo scioltosi non troppi anni fa che di sicuro non ha avuto il successo che meritava. Si chiamavano Amor Fou, so che Rob Duca, anche se non gli ho chiesto niente stavolta, approverebbe. I 400 Colpi tra l’altro è anche un film incredibile di Truffaut. Guardatelo.

Postilla 3. L’ultima, giuro. Educare deriva dal verbo latino educĕre, unione di ē- (“da, fuori da”) e dūcĕre (“condurre”). Quindi “tirar fuori” o “tirar fuori ciò che sta dentro”, molto diverso dal termine con cui il nostro sistema culturale l’ha confuso e falsificato: formare, che invece significa appunto “dare forma”. La differenza come immaginate è sostanziale, provate a dare forma ad un fiore, ditemi poi quello che ne viene fuori, così, tanto per.

***

RISPOSTE:

  1. D. Già, proprio così, strano vero?
  2. B. Il grande scrittore Lev Tolstoj (1828-1910), anarchico cristiano, come lui stesso si definisce, nel 1859 ha dato vita a Jàsnaja Poljàna (che significa “prato, radura chiara e serena”), una scuola libertaria per i figli dei contadini, situata nella tenuta che aveva ereditato dalla madre in campagna. Le caratteristiche di questa scuola la fanno rientrare nella cosiddetta pedagogia non coercitiva, incentrata su ordine, terrore, sforzo mnemonico e attenzione.
  3. B. Paulo Freire, brasiliano, propose una pedagogia alternativa, fondatore del movimento brasiliano di educazione popolare, è l’autore della Pedagogia degli oppressi del 1968. Il suo interesse non è stato solo definire una nuova tecnica di alfabetizzazione (egli fece l’esperienza della piaga dell’analfabetismo nel Nord-Est del Brasile), ma più generalmente è stato rivolto a suscitare una critica alla situazione sociale per la ricerca di un suo superamento secondo modalità non imposte, ma individuate dagli stessi oppressi.
  4. C. Capito bene?
  5. C. Sono tutti esponenti della pedagogia libertaria. Il francese Paul Robin (1837-1912), amico di Karl Marx e poi di Bakunin, tra i massimi esponenti della concezione dell’educazione integrale, è stato il direttore dell’orfanotrofio di Cempuis (attivo dal 1880 al 1884) dove ha realizzato una esperienza educativa tra le più innovative della pedagogia moderna. A Cempuis i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze (insieme, a differenza delle prassi educative dell’epoca) apprendevano le cose e i concetti all’interno di attività laboratoriali, dove era vivo lo stretto rapporto tra ragionamento e azione, tra teoria e prassi. I ragazzi costruivano loro stessi degli strumenti che poi utilizzavano nelle diverse esperienze di apprendimento.
    Cosa molto importante sul piano pedagogico e sociale, a Cempuis erano ammessi bambini con difficoltà cognitive i quali erano integrati nelle attività con tutti gli altri.Lo spagnolo Francisco Ferrer (1859-1909) è l’ideatore delle scuole moderne, dove si attua un progetto di educazione finalizzata a contrastare l’ingerenza del potere statale verso i più poveri che nell’istituzione scolastica trovano solo forme ulteriori di assoggettamento e addestramento (un pensiero sviluppato nella seconda metà del XX secolo anche da Ivan Illich).
    L’altro francese, Sébastien Faure (1858-1942), è stato uno tra i più importanti teorici dell’educazione libertaria. Ispirandosi a Paul Robin nel 1904 dà vita, alle porte di Parigi, a uno dei più noti laboratori di pedagogia libertaria che prenderà il nome di La Ruche (L’alveare). Per un approfondimento si vedano: F Trassati, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Eléutera, 2004 cit; M.P. Smith, Educare per la libertà, Elèutera, Milano, 2019.

 

Un commento su “Educare per la libertà: la risposta non è mai l’autorità

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