di Pancrazio Anfuso
La memoria aiuta quando la tristezza fa venir meno l’immaginazione, diceva qualcuno il cui nome non ricordo, per via dell’ora tarda. Secondo me immaginazione e memoria possono sostenersi a vicenda e viaggiare di pari passo, anche in questi tempi social, che tendono a sottrarci l’attenzione, dicono alcuni, bombardandoci di stimoli insignificanti.
Avere la timeline piena non vuol dire, però, dimenticarsi automaticamente. Basta lasciarsi andare alla deriva per isolarsi dal rumore di fondo, passeggiando a naso per aria anche nelle pieghe dei ricordi personali, che si legano profondamente ai posti. Tutti abbiamo nelle ossa l’istinto nomade. Chi di noi lo ha assecondato, però, si becca l’effetto collaterale del migrante: la nostalgia, che conserva il ricordo di casa vivido e incancellabile.
Qualche volta mi capita di sentire ancora a memoria lo sferragliare del tram di Centocelle che gira intorno all’isolato di piazza dei Gerani per andare a fermarsi al capolinea. Due linee, una che porta alla stazione e l’altra che attraversa la città, arrivando a un passo dal Vaticano, dopo aver accarezzato l’Università, il Policlinico, i Parioli, lo Zoo. Il famoso 19, raccontato da nobilissime penne, come quella di Edoardo Albinati. La notte si sentivano i tram che passavano, anche a una certa distanza, e se avevi il sonno leggero potevi farti svegliare dalle prime corse del mattino, prima che il quartiere coprisse con i suoi rumori caratteristici i suoni della notte.
Centocelle si percorreva a piedi, appresso alla mamma, a fare la spesa da Fiorucci, che era un supermercato in piena regola, proprio davanti alla curva che faceva stridere le ruote del tram. Continuando la passeggiata verso piazza dei Gerani si arrivava a un pezzo di marciapiede più largo. Lì c’era una bacheca verde dove veniva affissa l’Unità dai militanti della sezione PCI che stava giusto dietro l’angolo.
Qualche passo dopo s’incontrava, quasi sempre, una specie di tazebao, che pubblicizzava gli spettacoli del Teatro di Centocelle. Io facevo le elementari ed ero molto curioso. Cercavo di immaginare cosa potesse esserci in quel teatro, dove non ricordo di essere mai entrato, nemmeno dopo. E anche adesso, cercando puntelli per la memoria che supportino la mia immaginazione, fatico a trovare qualcuno che racconti quell’avventura. Il teatro era in una specie di garage/scantinato che stava sotto un negozio di pelletteria che faceva angolo, al piano terra di un condominio.
La sala poteva ospitare pochi spettatori, un centinaio o poco più, e aveva preso il posto di una palestra di karate a sua volta leggendaria. Si favoleggiava di eroi in grado di spezzare un numero indefinito di tavolette accompagnando con un urlo il colpo secco del taglio della mano, emulando Bruce Lee e le scene in cui sbaragliava nemici, a mani nude contro armi terribili e soverchianti plotoni urlanti di cattivi. Era cinema che faceva soprattutto cassetta, ma Bruce Lee aveva le sue qualità. Per esempio, piaceva a Quentin Tarantino. Chissà quanti scafoidi fratturati avrà sulla coscienza il vecchio Bruce Lee…
Il Teatro di Centocelle, invece, non nasceva per fare cassetta. I biglietti costavano poco, dalle 600 alle mille lire, e spesso si facevano spettacoli a sottoscrizione, per sostenere le lotte di oscuri nobilissimi operai che reggevano con i denti il posto di lavoro minacciato dai protervi nemici di classe, gli sfruttatori delle masse, i padroni. Gli spettacoli, nonostante il prezzo del biglietto, erano di una certa qualità. Testi scritti da Dacia Maraini e portati in scena da Bruno Cirino, fratello maggiore di Paolo, che ometteva il Pomicino e si posizionava decisamente più à gauche. Storie del quartiere ai tempi del fascismo, patimenti del popolo esposto alla malasanità, tristi esistenze di giovani ragazze, come Anna, la protagonista morente di “Manifesto dal carcere”, che inaugurò il teatro il primo di marzo del 1971.
Le scene di “Manifesto” erano state dipinte da Renato Guttuso e il teatro era frequentato da Alberto Moravia, nato Pincherle, che di Dacia era da tempo l’anziano compagno.
Centocelle era un quartierone senza un metro di verde, anche se lo delimitavano i pratoni che poi furono sepolti da una colata di cemento, ma questa è una storia che racconteremo un’altra volta.
Il teatro teneva banco sui giornali e ribolliva d’iniziative che riscontravano il consenso popolare e venivano seguite dall’occhio della critica, sempre tesa a sottolineare il possibile dibattito che poteva innescarsi dopo aver assistito alla rappresentazione di ponderosi testi sul Vietnam o aver provato un fremito d’indignazione alla vista delle scene di squadrismo rievocate dagli attori sul palco. La Maraini si ricorda un (inverosimile) numero di abbonati: 5000. Probabilmente si trattava di tessere, vista la capienza del teatro. Alcuni ricordano di aver visto Francesco De Gregori e Antonello Venditti suonare, narrano di un’intesa col Folkstudio, raccontano la presenza fissa di Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli e quella saltuaria di Dario Fo.
La Maraini ricorda il lavoro certosino di Judith Malina e di Julian Beck, al secolo Living Theatre, e la loro incapacità di rapportarsi all’esistenza pratica di tutti i giorni. Io li vidi una quindicina d’anni dopo, più volte, all’ex SNIA. Beck non c’era più, ma gli spettacoli erano eccezionali. Il Teatro di Centocelle durò qualche anno, io smisi i calzoni corti, che all’epoca s’imponevano ai marmocchi sotto ai dieci anni, e mi adattai alla zampa d’elefante, come tutti.
In giro per il quartiere se le davano tra comunisti, fasci e polizia, e la situazione stava per peggiorare. Poi arriverà l’eroina a calmare le acque.
A Centocelle di teatro “serio” non si è più parlato. Il negozio di pelletteria sfrattò i capelloni sovversivi che si riposizionarono a via Carpineto, dove infuriava la stagione dell’occupazione delle case. I borghetti di baracche, in giro, mostravano un’umanità sotto la soglia dell’indigenza. Sottoproletariato, si chiamava, mentre si cercavano modi tortuosi per complicare la realtà guardandola con gli occhiali dell’ideologia.
Noi respiravamo tutta quella violenza senza filtri, e non c’era davvero bisogno di chi mettesse le didascalie. Il Teatro di Centocelle si poneva il problema del linguaggio, almeno così diceva la Maraini, che cercava una strada non formale per rendere facilmente fruibile la rappresentazione. Oggi mi viene il mal di testa solo a pensarci, ma forse era giusto così.
Non erano tempi buoni per artisti ermetici, er popolo era centrale e se doveva da parlà chiaro e comprenzibbile, la lotta de classe necessitava di codici accessibbili.
Poi, finito il ricreativo, principiava il culturale: “forse su quest’ultima precisazione (quella del linguaggio non formale, nota mia), avremmo qualche obiezione da fare, soprattutto perché, oggi, troppi messaggi ideologici non formalizzanti rischiano proprio di rimanere inerti e inefficaci socialmente”. Così commentava l’Unità, a firma di un certo R.A., il giorno della prima. E se lo diceva l’Unità doveva essere per forza vero.
Anche io, preparando un Ubu, frequentai con Pasqualino Panella, il poeta già amico mio (antonello@baranta.it)
Avevo circa 25 anni e sono andata ad aiutare a pulire il nostro teatro per l’inaugurazione e si è preparato un piccolo palchetto davanti al teatro, c’era parecchia gente e casualmente mi trovai vicino a Dacia Maraini e Moravia. Quando Dacia ha chiesto a Moravia di salire sul palco e dire qualcosa, Moravia rispose: “non so cosa dire e poi mi vergogno”, io rimasi di sasso…sentir dire da Moravia che si vergognava…