Il ritorno sulle strade di casa, ad Amatrice, quasi un mese dopo il terremoto che ha distrutto il centro Italia. Il racconto di un viaggio tra memoria e realtà. Dove pudore e rispetto vivono tra le macerie di una cittadina che giace scomposta e irriconoscibile.
di Pancrazio Anfuso
Per andare al paese (dico così, tra me e me, quando ho la fortuna di fare un salto ad Amatrice), percorro in genere la galleria che da Norcia porta, passando nelle viscere della Sibilla, alla via Salaria. Una galleria lunga, dove non si capisce se si sale o si scende, che cambia completamente lo scenario: da una parte si sta coperti sui fianchi della montagna, dall’altra ci si affaccia sulle coste ripide che scendono a valle, verso il Tronto, per poi risalire quando cominciano i monti della Laga.
Sopra, in cima alla Sibilla, c’è la Faglia della via delle Fate. Sotto passa la strada, con i suoi viadotti arditi, battuta dal vento che siccome è ancora estate è tiepido, un poco umido, e insieme al sole fa il suo dovere per asciugare l’umidità della notte. Tempo da funghi. Per terra è bagnato, ha piovuto e ogni tanto ricomincia, giocando a disegnare arcobaleni.
Guardo in basso e vedo la strada che scintilla al sole. Poi arriva Pescara del Tronto.
Te la trovi sotto strada. Ma non c’è. Al posto del paese un cumulo di sassi che mi obbliga a uscire dalla cartolina per fare i conti con la realtà.
Fin qui i segni del sisma non erano evidenti, sembrava la solita strada, il solito paesaggio di montagna, che scorre veloce, quando si annusa l’aria di casa. Il cambiamento mi arriva addosso all’improvviso. Su questi paesi sembra ci sia stato un bombardamento. Il paesaggio è sconvolto, scendendo giù fino alla Salaria per poi risalire verso Amatrice si vede l’indicibile.
Qualcosa che va oltre l’immaginazione, come ripetono tutti gli amici che incontro durante la giornata. Siamo tutti qua, in cerca di qualcosa che si è perso quella notte. Chi c’era soffre perché ricorda la paura, chi non c’era prova compassione ma non può capire fino in fondo.
La realtà supera l’immaginazione, basta guardarsi intorno per capire che nemmeno nel più angoscioso degli incubi sarebbe stato possibile ipotizzare un disastro come questo. Le storie che si raccontano, ripetute all’infinito, prendono vita propria e descrivono vicende che potrebbero adattarsi a tutti i luoghi e a tutte le persone. Il caso ha giocato con la vita di tutti, i sopravvissuti misurano la distanza minima che li ha separati dalla morte. E basta guardare i detriti sparsi in giro per capire che è stato proprio così: case grandi e belle ridotte in briciole, come quella dell’ex sindaco di Amatrice Serva, amato medico condotto che conosceva uno a uno vecchi e giovani di questi paesi, una bella villetta che chiudeva lo struscio su corso Umberto. Un mucchio di sassi.
Tra le briciole gli scatti di vita fermati nell’istante in cui la scossa ha scatenato il finimondo. Oggetti, vestiti, televisori, imposte, soprammobili, stracci. Sembrano i mucchi di calcinacci che si fanno quando si demoliscono le parti di una casa per rifarla nuova e più bella. Sono pezzi di esistenza seppellita: sotto queste case crollate sono morte centinaia di persone, sorprese nel sonno dal finimondo che si è annunciato, raccontano, con un boato terrificante. Indimenticabile. Simile al rumore di un aereo all’atterraggio, dice qualcuno. Con la casa che sembra sollevarsi per aria come se ci fosse un gigante che la prende per scuoterla e vedere cosa c’è dentro, dice un altro. E mentre si cerca di ritrovare il controllo dei propri movimenti si pensa al peggio, mentre fuori la falce fienaia della morte scandisce il ritmo della danza macabra.
Ad Amatrice ci sono più volontari che senza tetto. È tutto un brulicare di persone gentili che indossano divise. Polizie, pubbliche assistenze, misericordie, croci rosse, gente che si adopera, aiuta, consiglia, sorride. Disponibili e discreti. Chiedono di evitare di fare foto, se possibile. Sembrano dirti di non guardare, che è meglio rispettare la memoria di una cittadina che giace scomposta e irriconoscibile, lacerata irrimediabilmente. Che è meglio avere pietà.
Vedo amici che si stanno organizzando per lasciare le tende. Antonio, sorridendo, mi dice che si adatterà, per adesso, in un garage che è rimasto intero. Lui un lavoro ce l’ha, anche se non sa bene cosa aspettarsi da qui in avanti. Gianni, che quando eravamo piccoli era quello più chiuso e silenzioso, sfodera un sorriso mesto e dice che andrà a stare in albergo a San Benedetto, con la moglie e la figlia piccola, perché se anche trovasse qui un posto dove stare non ci sarebbe lavoro, e come campi? Ma lì forse si trova qualcosa, gli auguro. Mentre ci abbracciamo gli dico che ci rivedremo qua, ma sappiamo tutti e due che sarà difficile.
Quando la frenesia di questi giorni finirà, quando arriverà l’inverno, i sorrisi dei volontari si trasformeranno in arrivederci e la strada della ricostruzione si farà dura. Difficile immaginare un futuro in una città costretta a coprirsi per nascondersi allo sguardo pietoso del mondo.
Ferita anche nell’orgoglio, costretta com’è a nutrirsi della compassione altrui.
Mentre riparto arriva un altro acquazzone. Prendo la via di Collespada, che passa nel bosco e che nessuno conosceva. Adesso è diventata una piccola arteria di comunicazione, senza nemmeno un cartello che ti dica dove va, si lamenta un volontario toscano, sorridendo.
Ho davanti un arcobaleno nitidissimo, che arriva giù fino sul prato. Non sembrano esserci pentole di monete d’oro, alla base. Per strada ogni tanto si vede, appesa a un cartello o fuori da una finestra, una bandiera tricolore.
Su Amatrice Pancrazio Anfuso ha scritto in queste ultime settimane altri tre pezzi:
1 – Morte di Amatrice, tradita dalla Bestia assassina
2 –Amatrice, riscoprire il bene comune per salvare la mia città di rovine
3 – L’organetto, la poesia a braccio: ricostruire l’identità