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di Alice Kiddo

La guerra civile siriana è nota per calamitare fondamentalisti islamici di ogni provenienza e per il massiccio intervento di volontari stranieri, i cosiddetti foreign fighters. L’ISIS ha tenuto sotto assedio per circa quattro mesi Kobane, città nel Kurdistan siriano al confine con la Turchia. Assedio risolto con la vittoria delle forze laiche e nello specifico della milizia YPG (Unità di protezione popolare) e del suo braccio femminile: l’YPJ (Unità di protezione delle donne).

Tre registi italiani: Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravallotti e Claudio Jampagli hanno indagato fra le fila delle milizie curde che hanno difeso la città di Kobane e la regione di Rovaja. Il documentario “Our war” racconta questa resistenza e le motivazioni dei volontari internazionali. Dando così uno spostamento di valore al termine foreign fighter, il quale solitamente definisce i volontari stranieri dell’ISIS.

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Presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia “Our war” mostra tre occidentali che hanno lasciato le loro case sicure per andare a combattere una guerra vecchio stile. Saranno muniti di armi obsolete e supportati da pochissimi raid aerei. C’è un italiano di Senigallia con origini marocchine: Karim Franceschi, un marine: Joshua Bell e un curdo-iracheno emigrato in Svezia: Rafael Kardari. Tutti e tre si muovono sulla soglia dei trent’anni e raccontano le motivazioni che li hanno portati ad abbandonare le battaglie simulate dei videogiochi per diventare finalmente protagonisti.

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Se uccidere in nome di Dio è satanico, uccidere in nome della libertà come si può definire? I registi sospendono il giudizio, lasciano srotolare la matassa a voi e capire perché combattere una guerra che geograficamente non è nostra. Io sono ancora qui a chiedermi quale sia il filo logico per la costruzione di una democrazia, specialmente quando questa nasce dalla catasta fumante di una guerra.

 

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