di Alberto Brizioli
Mio marito è magro.
Abbastanza alto per la sua generazione.
Porta sempre gli occhiali.
Dice che è stupido spendere soldi per delle lenti a contatto.
Si veste comodo.
Alla moda non direi, ma comodo.
Lo considero un uomo intelligente, però le conversazioni non sono il suo forte.
Non lo regge proprio il botta e risposta.
A volte viene da me, qualche giorno dopo un’accesa discussione, e mi dice:
“Pensa se gli avessi detto così, l’altro giorno!! Allora sì che quell’arrogante se ne sarebbe stato zitto! Perché non ci ho pensato!!!”.
Rimugina per giorni sulle risposte non date.
Ma c’è una cosa in particolare, che del modo di fare di mio marito proprio non mi va giù:
NON SA TENERE LE MANI A POSTO.
Mentre parla gesticola, e soprattutto tocca il suo interlocutore.
Quando è di sesso femminile in particolare, direi io.
Forse è una mia fissazione ma… No ha proprio questo vizio di toccare le donne.
A volte gli afferra la spalla, a volte l’avambraccio, se conversa mentre cammina allunga una mano sulla schiena.
Insomma non sa proprio tenere le mani a posto.
Io lo sapevo, quando ci siamo sposati, che avrei dovuto sorvolare sui suoi difetti.
Del resto il matrimonio è questo:
un continuo slalom tra quello che odiamo dell’altro.
Eppure questa volta non riesco proprio a buttare il cuore oltre l’ostacolo.
LO OSSERVO MENTRE PARLA.
Ormai li prevedo con qualche secondo d’anticipo i suoi gesti.
E non appena il suo braccio riceve il primo impercettibile impulso dal cervello, un brivido mi percorre la schiena.
È una sensazione simile ad un vuoto d’aria.
Sono costretta a guardare altrove.
Potrei morire o esplodere in un impeto d’ira incontrollato se non mi distraessi.
A volte ho provato a spiegare questo mio problema alla mia amica Stefania, ma a metà discorso mi sentivo stupida e lasciavo perdere.
Spesso le cose, a raccontarle, perdono la logica ferrea che hanno nella nostra mente.
Ora sono a casa, lavo i piatti della colazione.
È Sabato. Mio figlio è andato al lago con i genitori di un suo compagno di scuola.
Mio marito fischietta in giardino mentre taglia l’erba.
Lo osservo dalla finestra e mi accorgo di vederlo come un nemico, qualcuno che il mio istinto mi suggerirebbe di eliminare.
MI SORPRENDO DI ME STESSA.
Sì, è vero, la nostra non è stata una storia alla Romina e Albano.
Quando ci siamo conosciuti io avevo 33 anni e 3 amiche su 4 in maternità.
Non potevo permettermi di fare troppo la schizzinosa.
L’avevo fiutato un futuro poco roseo quando, il giorno del matrimonio, per portarmi a letto in collo chiese cinque minuti di pausa a metà gradinata, neanche si fosse sposato Platinette.
Eppure quello che provo adesso è un’assoluta esagerazione rispetto a qualunque sentimento passato.
Per le mie mani passa un coltello da prosciutto con qualche resto di grasso a cavallo della lama.
La percorro dal manico alla punta con il pollice da una parte e l’indice dall’altra.
RIMUOVO LO SPORCO.
Mi tolgo uno sfizio: pungo un polpastrello con l’estremità.
Una bollicina di sangue risponde alla chiamata diluendosi con l’acqua mista a detersivo di cui sono imbevute le mani.
Come colta da un’irrimandabile impellenza, corro via dalla cucina verso la camera da letto.
Il coltello saldo nella mano destra.
Mi accorgo d’impugnarlo come se fosse una spada e io un gladiatore all’assalto.
Salgo le scale due gradini alla volta.
Entro in camera.
Mi blocco per un istante ai piedi del letto nuziale.
Sono esattamente perpendicolare ai lati corti del materasso e osservo la foto di famiglia che veglia sulle lenzuola fresche di lavatrice.
Poteva toglierseli gli occhiali, almeno per la foto di famiglia.
Procedo lentamente verso il mio lato del letto e apro il cassetto del comodino.
Adagio il coltello in mezzo a passaporto, chiavi di riserva della macchina, qualche libro.
Non c’entra… Anzi sì, basta metterlo in diagonale.
Torno in cucina ma non finisco con i piatti.
Restano tre tazzine nel lavandino.
I loro fondi sono ancora densi di caffè e granelli di zucchero non sciolti.
Mi balena l’immagine di mio marito che parla con la nostra vicina.
È successo tre giorni fa.
Lei è venuta da noi dopo essere stata abbandonata dal suo compagno con un semplice biglietto.
Aveva visto troppi film quel vigliacco a detta di lei.
Non si abbandona una donna con un biglietto, dice mentre mio marito si allunga ad accarezzarle il collo.
RABBRIVIDISCO.
“Vedrà che tornerà” fa lui.
“Sarà già in Venezuela” penso io.
È notte.
Mio marito non russa ma emette una specie di fischio quando inspira dal naso.
Inutile dire che questo fatto, di cui un tempo ridevamo (più che altro lui), è presto diventato un problema.
Sono circa le quattro, ma la porta socchiusa della stanza lascia entrare un sottile fascio di luce dal corridoio.
Quanto basta per vederlo che si tiene strette le parti intime.
Avrà paura che glielo portino via mentre dorme?
Mi volto sul fianco, apro il cassetto del comodino.
Incontro il manico del coltello e lo impugno.
Lo sollevo e con lui mi alzo in ginocchio sul letto, attenta a non rubare troppa coperta.
Faccio più rumore del previsto ma non mi preoccupo troppo.
Ha il sonno pesante.
Sono sopra di lui e lo osservo.
L’ho immaginata molte volte questa scena.
Ma ora non so da dove cominciare.
Carico in modo plastico il primo colpo da sferrare.
Il mio braccio destro si erge alto sopra il suo petto.
La mente traccia linee immaginarie che lo sezionano.
E non è vero che il primo affondo non conta.
Anche se dopo ce ne saranno molti altri.
NON SO PROPRIO DA DOVE COMINCIARE.